Monday, June 04, 2007

A TU PER TU CON IL MASSONE

A TU PER TU CON IL MASSONE
SEGNI DELLA MASSONERIA FUORI E DENTRO I PALAZZI LECCESI

Fra i meandri del Barocco leccese, sulle facciate e negli angoli di antichi palazzi e perfino fra i tetti delle case, la storia racconta di un’antica ma ancora viva tradizione massonica che è nel Dna della Terra d’Otranto. I simboli della Libera Muratoria sono talmente evidenti che, come spesso accade, diventano invisibili agli occhi dell’osservatore distratto che mai si sofferma ad ascoltare quello che la città racconta attraverso la pietra. Se a Lecce c’è un luogo in cui è possibile cercare aiuto per orientarsi in questo universo di segni misteriosi, questo è lo studio del professore Mario De Marco: giornalista, critico d’arte, storico, filosofo, e soprattutto orgoglioso massone. Circondato da libri, scartoffie e importanti documenti storici, a pochi passi dalla Casa massonica di Lecce (in piazzetta della Luce), De Marco può suggerire dove andare a cercare: “Sull’architrave di Santa Croce sono raffigurati dei putti che reggono un regolo e un compasso, secondo alcuni, inoltre, il profilo in basso rilievo alla sinistra del rosone potrebbe rappresentare il Baphomet, e non il volto di uno degli scultori della Basilica, Giuseppe Cino”. Sulla facciata del monumento più noto e rappresentativo del Barocco leccese, quindi, ci sarebbe più di un richiamo alla cultura massonica, e persino la raffigurazione del Baphomet, un idolo noto anche ai seguaci dell’occultismo, il cui nome si può ritrovare nei verbali dei processi inquisitori ai quali furono sottoposti i Cavalieri Templari intorno al 1314.
Su un muro esterno del palazzo Lopez y Royo, la prima casa massonica nata a Lecce nel 1805, oggi sede dell’Istituto per i Ciechi, ritornano due chiari simboli massonici: il compasso e il filo a piombo. Non solo, De Marco sa bene che volgendo le spalle al portone di quel palazzo e alzando lo sguardo al cielo, verso l’edificio di fronte, si può individuare “uno strano comignolo, ossia la parte terminale di un Atanor”. Si tratta, come spiega De Marco, del “crogiuolo alchemico che rende possibile il Solve et coagula”. Come l’alchimista cerca di ricavare l’oro dai metalli impuri, così il massone cerca di depurare l’anima umana dalle scorie per ritrovarne la purezza. L’Atanor è effettivamente lì. Fra le antenne televisive delle case e le canne fumarie delle caldaie si distingue chiaramente e si offre al nostro sguardo in tutto il suo affascinante mistero. Sembra di essere in un romanzo di Dan Brown, un romanzo che è sempre stato scritto davanti agli occhi dei Leccesi, ma che in pochi sono riusciti a leggere.
Magistrati, avvocati, funzionari e frequentatori del Palazzo di Giustizia di Lecce forse non sanno che davanti al loro naso, sul prospetto dell’Istituto d’Arte G. Pellegrino, in viale De Pietro, la massoneria ha lasciato altre (ma non uniche) inequivocabili tracce, altre prove della sua presenza e del suo potere in città. Un potere talmente forte da essere capace di resistere nei secoli alle persecuzioni della chiesa cattolica e a quelle del fascismo, inflessibile (come tutti i totalitarismi) nei confronti degli appartenenti alle Logge, considerati oppositori del regime.
La massoneria appare come una creatura a due facce, un po’ come viene descritto il Baphomet: da un lato l’immagine di una cerchia di uomini colti, “tesi alla ricerca razionale e intuitiva dei simboli e del loro significato esoterico”, intenti a edificare un solido tempio interiore con gli strumenti della conoscenza antidogmatica; dall’altro lato, non mancano, come in ogni umana istituzione, affaristi e arraffoni unicamente interessati al proprio tornaconto, al miglioramento della propria condizione e non a quello dell’uomo e della società. “Tuttavia - Dice De Marco – certi episodi riguardanti la Massoneria lasciano sconcertati e perplessi, e questo è il caso della P2 e del suo Venerabile Maestro Licio Gelli, che si trovò invischiato in oscure trame di interessi e di politica, che nulla avevano a che fare con la tradizione e l’insegnamento Liberomuratorio. E’ ovvio, quindi, che all’esterno l’immagine della massoneria venisse offuscata e guardata con sospetto, ma l’Istituzione ha saputo liberarsi di gente di tal fatta, considerata, pertanto, come apostata dell’iniziazione.
Val la pena ricordare – aggiunge – che il Massone deve credere in Dio e nell’immortalità dell’anima, che giura di rispettare la Costituzione e le leggi che ad essa si conformano e che, nei templi, è assolutamente vietato parlare di politica e religione”.
A sentire Mario De Marco i massoni a Lecce sono molti di più di quanti si possa immaginare e, infatti, come documentato dallo stesso De Marco in un suo recente volume (Storia della massoneria di terra d’Otranto) le logge leccesi in attività sono ben sette se si considerano solamente quelle che fanno riferimento al Grande Oriente d’Italia: la Loggia “Liberi e Coscienti”, la “Giuseppe Libertini”, la “W. A. Mozart”, la Loggia “Hermes”, la “Antonio De Curtis”, la Loggia “Atanor” e la Loggia “Ars Regia”. A queste vanno aggiunte, poi, quelle obbedienti a Palazzo Vitelleschi e quelle femminili. Sull’identità degli iscritti alle logge vige un certo riserbo, anche se questa è, secondo De Marco (che tra pochi mesi darà alle stampe un volume dove si troveranno i profili biografici e massonici di ben 1000 salentini), una peculiarità tutta italiana, perché “l’Italia è ancora un feudo della chiesa Cattolica e nel nostro Paese vige ancora l’Ancient Regime”. La segretezza, quindi, non sarebbe una prescrizione dello “Ius massonico”, bensì una scelta dei singoli massoni (molti dei quali sono personaggi pubblici o ricoprono ruoli di rilievo nella società) che non rivelano volentieri la propria adesione alla Libera Muratoria perchè lo ritengono in qualche modo sconveniente e preferiscono non esporsi. La Procura della Repubblica di Lecce possiede tuttavia, come precisa De Marco, gli elenchi degli iscritti alle logge, che quindi non hanno più nulla di segreto se non le attività rituali che si svolgono nel chiuso del tempio. Il mistero, però, rimane, ed è forse proprio questo che consente alla Libera Muratoria di suscitare ancora sentimenti contrastanti che vanno dal profondo disprezzo di molti “profani” che vedono nella massoneria un potere malvagio implicato nei capitoli più oscuri della storia italiana (per rimanere in Italia), alla grande devozione verso ideali e principi di natura morale e metafisica. Rivolti, per usare le parole del professore Mario De Marco, ai “principi di libertà, fraternità e uguaglianza nonché al miglioramento di ognuno per il bene proprio, dell’umanità e a onore e gloria del Grande Architetto dell’Universo”.

NEL MICROCOSMO DI VINCENT, STORIA E VISIONI DI UNA PECORA NERA


NEL MICROCOSMO DI VINCENT, STORIA E VISIONI DI UNA PECORA NERA

Vincent il pazzo, Vincent il genio, il mito, il visionario, l’artista. “Sono uno dei più grandi fuori legge d’Italia - esordisce - perché sono un illegale nato, faccio tutte le cose così come mi vengono in mente e questo non piace a chi ci vorrebbe vedere tutti incanalati. Ce ne sono troppi che sono incanalati, e allora qualcuno che fa la pecora nera ci vuole. Io sono una pecora nera, ma fortunato, perché tante pecore nere hanno pagato con la vita il prezzo della loro libertà”.
Un personaggio controverso Vincent Brunetti, che nel suo eremo a Guagnano riceve ogni giorno decine, a volte centinaia di visitatori: curiosi, appassionati d’arte, compaesani e turisti che arrivano ormai anche dall’estero per vedere, per toccare con mano “l’isola di pace” che Vincenzo Maria Brunetti ha inventato in una dimenticata periferia italiana.
Adesso Vincent vende le sue tele, si guadagna da vivere e sembra felice, ma non è facile essere un diverso in paese. In una piccola comunità come Guagnano ci vuole poco per diventare lo zimbello di tutti, “lo scemo del villaggio”, uno di quegli esseri umani il cui genio artistico viene riconosciuto dopo la morte, preferibilmente quando questa arriva in circostanze tragiche e non di rado in solitudine. Non è questo il destino di Vincent, e lui ne è fiero: “Non sono più il diverso di Guagnano – dice con orgoglio – prima mi additavano, ora non mi dicono più niente, perché porto il turismo in paese. Io, a differenza di altri artisti, sono stato più intelligente, ho capito che dovevo avvicinarmi alla gente, perché la gente ha bisogno di qualcuno a cui affidarsi, così come fa quando va dal prete. Quando la gente ha bisogno di soddisfare il suo bisogno estetico che ha nell’anima va dall’artista. Ma quando l’artista non capisce questo bisogno respinge gli altri e finisce per rimanere solo”. Ora anche la critica lo innalza e tenta di collocarlo in una corrente (il trans-avanguardismo) ma è realmente impossibile incasellare Vincent e le sue opere: sarebbe un torto fatto a lui e alla sua arte. Certo è che Vincent è figlio di un’epoca, quella iniziata con i capelloni che volevano mettere i fiori nei cannoni e terminata con il piombo delle P38. Ma la “libellula del sud”, così Vincent era soprannominato, non ha mai smesso di sognare l’isola di White, la sua Itaca, e a 45 anni, nel 1995, ha pensato di costruirla veramente: a Guagnano. I grandi eroi di quella generazione sono morti, spiega, alcuni assassinati, altri a causa della droga, “quelle manifestazioni e quelle lotte, le sparatorie, non hanno portato a niente, eppure nella storia c’è stato un cambiamento. Quei grandi uomini hanno lanciato in mare una bottiglia con dentro un messaggio e io l’ho trovato. Ho capito di essere un predestinato e un privilegiato in quanto sono stato il frutto più bello del sistema democratico, un sistema che ha commesso tante ingiustizie, però ha creato Vincent”.
Tutto è iniziato dopo una “rivelazione divina” come racconta l’artista. Un evento cardine nella vita di Vincent martoriata dalle piaghe della poliomielite. L’incontro con Mariano Orrico, il commercialista di Voghera che dice di aver scoperto una terapia per questa malattia: una lamina miracolosa che strofinata su una pelle di pecora sprigiona un’energia benefica per il corpo e per la mente. “Questa pelle è il mitico vello d’oro - sostiene Vincent - quello narrato dagli antichi greci. Orrico ha scoperto che esiste davvero e mi ha ridato la speranza di vivere, camminare e correre”. Improvvisamente Vincent si alza e inizia a volteggiare disegnando dei cerchi nell’aria con le braccia e con le gambe. L’energia elettrostatica alla quale quotidianamente espone il suo corpo “è come un narcotico – dice – e mi fa stare bene”. A dodici anni di distanza da quell’incontro Vincent si sente ancora in debito con l’uomo che con questa stravagante terapia gli ha cambiato la vita. Ma il rapporto con l’arte nasce nell’infanzia, quando a soli 11 anni Vincenzo Brunetti fa il madonnaro nelle feste patronali, accompagnato dallo zio. Poi la malattia e i problemi economici lo strappano alla sua terra e lo portano a Roma, a Torino e a Milano “la città mostruosa” dove l’artista vive il suo momento di notorietà e apprende le tecniche scultoree da Manzù e Messina, suoi maestri. Ottiene anche dei riconoscimenti per le sue opere, ma Vincent è un treno in corsa, decide di stabilirsi nei pressi di Noci, in un trullo in aperta campagna. Qui sfida apertamente la chiesa, inizia a celebrare messa, accoglie i disperati e si guadagna gli anatemi del vescovo che gli proibisce di svolgere attività religiosa. Correva l’anno 1979 e probabilmente già in quel trullo Vincent prefigurava quella che sarà la sua oasi di pace oggi fruibile da tutti nella periferia di Guagnano.
Una grande capacità di comunicare, un estro senza limiti, un’energia fuori dal comune permettono all’artista di guadagnarsi l’affetto della gente, di tutte le estrazioni sociali, che lo ricambia andandolo a visitare. Gradualmente i contatti fra Vincent e il mondo esterno si riducono sempre di più. Nella sua isola c’è tutto quello di cui l’artista ha bisogno, in quel castello costruito con materiali di risulta c’è l’anima di Vincenzo Maria Brunetti, fuori solo l’orrore. E’ attraverso le venezie che dipinge che la “libellula del sud” viaggia oltre le mura della sua fortezza, attraverso gli altri arrivano le notizie del mondo, e questo è ancora più vero da quando cinque anni fa Vincent ha detto addio anche alla televisione, dopo un’esternazione galeotta di Bruno Vespa che lo fece infuriare. In antitesi con il pensiero di Vincent, infatti, il conduttore di Porta a Porta aveva affermato che l’arte non fa aumentare l’audience, perché appartiene a pochi eletti, a una nicchia. Mentre l’artista ricorda quelle parole i suoi occhi si accendono ed esplode la sua ira: “Mi ha dato così fastidio quell’uomo che se avessi potuto l’avrei strangolato senza pietà, l’avrei cementato vivo, e nessuno mi avrebbe detto Vincenzo hai fatto male. C’è gente che è morta per l’arte e nessuno può permettersi di dire quello che ha detto Vespa. Via, uno in meno! Da allora non ho voluto più sapere niente della televisione, perché ho capito quanto faccia male alla gente”.
E’ probabilmente questo il più grande messaggio di Vincent, rivoluzionario nella sua apparente semplicità: l’arte è per tutti, è una divinità che ha bisogno dei suoi profeti. Uno di questi ha un nome: Vincenzo Maria Brunetti o, più semplicemente, Vincent.

Muay Thai, una strada per la vita


Poco più di settanta kg di peso, atteggiamento mite, modi gentili. Un ragazzo come tanti. Attenzione a non provocare, però, perché è in grado con pochi e precisi movimenti del corpo, di spezzare gli arti a un ipotetico e incauto aggressore in cerca di guai. Atleta tenace, vero sportivo ed entusiasta maestro, il Leccese Fabio Siciliani, ha scelto tuttavia il ring per dimostrare la sua forza e quello che sa fare; e lo ha dimostrato conquistando il titolo intercontinentale di Muay Thai, battendo a Bologna (nel novembre 2006) il portoghese Arnaldo Silva. Una storia difficile quella di Siciliani, classe 1981, che all’età di 18 anni è stato messo duramente alla prova dalla vita, quando il destino gli ha portato via il papà. “Ero un ragazzo allo sbando – ammette – non avevo voglia di far nulla. Stavo per strada e ho rischiato di perdermi nelle droghe. Poi l’arte marziale mi ha cambiato la vita, mi ha dato delle direttive e mi ha indirizzato sulla strada giusta”. Il Muay Thai, quindi, è diventato per Fabio Siciliani qualcosa di più di un semplice sport; è stato probabilmente quella ragione di vita che ti spinge a lavorare su te stesso, sul corpo e sulla mente allo stesso tempo, in cerca dell’equilibrio interiore che ognuno di noi insegue, spesso per tutta la vita. Ecco il significato di “Oltrecorpo”, la palestra fondata a Lecce da Fabio Siciliani, un centro culturale in cui non si apprendono solo le tecniche di combattimento, bensì è possibile anche iniziare un percorso che, solo se è seguito fino in fondo, porta alla vera dimensione spirituale della disciplina importata dalla Thailandia. “A differenza di altre arti marziali – ci spiega Fabio Siciliani – che sono prima di tutto filosofiche e poi si passa alla pratica, nella Muay Thai c’è prima molta pratica e poi, se sei degno, se sei bravo e vai fino in fondo, ti regala il suo aspetto spirituale. Per fare un esempio, io non inizio l’insegnamento spiegando perché un particolare calcio significa la tigre che attraversa il ruscello. Sono cose che, se le racconti ai ragazzi della nostra terra, suscitano ilarità, magari ti ridono dietro. Prima li faccio allenare tanto, e questo sacrificio già li aiuta, poi sono loro che pian piano cambiano. In palestra non ho gente con gli occhi iniettati di sangue; ho gente semplice che ha voglia di capire e che capisce non tanto attraverso le parole, ma attraverso il corpo e il metalinguaggio. Questo, nonostante le differenze abissali, accade anche in Thailandia.
Certamente lo scenario italiano è completamente diverso da quello della terra d’origine del Muay Boran (combattimento antico) che da oltre sette secoli fa parte della cultura tailandese, una disciplina che affonda le sue radici nella mitologia indiana e che è nata per trasformare uomini in guerrieri da impiegare nell’eterna lotta contro il vicino birmano. Una tecnica di combattimento che si avvaleva, in origine, dell’uso delle armi (Crabi Crabon), ma che permetteva al guerriero di usare il proprio corpo come arma nel caso in cui l’arma vera e propria fosse andata perduta durante il combattimento. Non parliamo dunque ancora di uno sport, ma di una disciplina a disposizione dell’esercito volta all’annientamento del nemico. Allo stesso tempo, però, il Muay Boran è anche spiritualità e cultura, controllo del proprio io, storia. Una storia che cambia radicalmente negli anni ’30 e ’40 del ‘900 perché, come spiega Siciliani, nasce un business intorno ai combattimenti. Gli europei scommettono (pratica peraltro legale in Thailandia) e i combattimenti sono feroci, cruenti, spesso mortali in alcune zone del Paese. La ferocia non è solo racchiusa in quei colpi che spaccano le ossa, ma è anche e soprattutto una ferocia sociale in un terzo mondo che lascia poche opportunità ai ragazzini e alle ragazzine delle campagne; i soldi facili si fanno in due modi diversi: il combattimento o la prostituzione. Entrambe le vie passano attraverso il corpo e la sua mercificazione.
Ma il Muay Thai (combattimento tailandese) è oggi soprattutto uno sport che ha proprio a Lecce uno dei massimi rappresentanti, un ragazzo che si sta preparando a conquistare il titolo mondiale e che allo stesso tempo sta formando un nutrito gruppo di allievi tra i quali Gianluca Siciliani, Stefano Frontini, Daniele Di Bari e Danilo Pinto che hanno ottenuto importanti vittorie in diverse competizioni nazionali della categoria dilettanti.
Sebbene lo sport, come è facile immaginare, segua delle regole e dei principi di natura etica ben differenti dal combattimento antico e da quello praticato ancora oggi in alcune zone della Thailandia, le origini del Muay Boran sono sempre presenti, così come l’istinto violento che è insito in ogni essere umano. La violenza, secondo il parere di chi scrive, esercita sempre un discreto fascino, tanto più forte quanto più è giovane e arrabbiato l’uomo che lo subisce. Nessuna confusione, però, può essere generata sul Muay Thai, che non è uno sport per violenti, né ha lo scopo di risvegliare il lato violento che è in ciascuno di noi. Al contrario esso insegna l’autocontrollo.
“L’arte marziale – spiega Fabio Siciliani – distoglie il ragazzo da futili idee di violenza. Per strada scoppiano delle risse per i motivi più banali e questo accade secondo me perché non si ha il controllo delle proprie paure e non si conoscono i propri limiti. La violenza individuale, è strettamente legata alle nostre paure. Io dico sempre ai miei ragazzi di difendersi solo quando hanno realmente paura e cerco di insegnare loro un principio fondamentale: quello dell’autocontrollo. Un altro discorso vale per la violenza collettiva che si manifesta ad esempio fuori dagli stadi, e che io definisco come un falò di menti leggere. Quei terroristi della domenica, che si nascondono nel gruppo, sono in realtà dei vigliacchi che non hanno argomentazioni né giustificazioni per quello che fanno”.
Chiarito che il Muay Thai non è stupida esaltazione della violenza, si sottolinea che decidere di dedicarsi a questa disciplina non è, comunque, come giocare a golf o a biliardo (sebbene anche nelle sale da biliardo possano volare i cazzotti) ed è per questo che per intraprendere un cammino simile a quello di Fabio Siciliani è necessaria una forte motivazione interiore, una passione vera e probabilmente anche una rabbia che ti brucia dentro e che, in un modo o nell’altro, attende di essere liberata.